Manituana, lo scontro di civiltà degli antenati di George Bush

Intervista su "Il Venerdì di Repubblica" del 23 marzo 2006
Un romanzo ambientato a fine Settecento, in America, con i nativi che vissero la guerra di indipendenza dalla parte sbagliata. Il giovane collettivo esploso con "Q" torna con un tuffo nel passato. Remoto

di Loredana Lipperini


Quando, otto anni fa, i Wu Ming (che si firmavano ancora Luther Blissett) spiegarono come si fa a scrivere in gruppo, usarono questa immagine: "E' come per il jazz: grande affiatamento, arrangiamenti collettivi e assoli individuali”. Dal metodo nacque un primo romanzo, Q, 250.000 copie vendute. Con la medesima prassi (scrittura collettiva, rinuncia al nome anagrafico in favore di uno pseudonimo, niente fotografie, niente apparizioni televisive), vennero poi, 54, diversi libri “solisti”, una sceneggiatura (Lavorare con lentezza). E, oggi, la terza e più ambiziosa prova dei cinque scrittori: Manituana (Einaudi Stile Libero,pp. 618 € 17,50) racconta la guerra fra Nordamerica e Inghilterra dal punto di vista degli indiani irochesi che si schierarono con re Giorgio.

Perché un gruppo di narratori italiani decide di raccontare le origini della nazione americana? Per di più, rovesciando non solo l’immagine canonica del pellerossa, ma quella successiva e “politicamente corretta”?

Abbiamo rifiutato anche la seconda visione, quella “alternativa”, un po' perché riguarda un altro contesto storico e geografico (la conquista del west durante il XIX° secolo), un po' perché non ci interessa il cliché dell'indiano “innocente” e in armonia con la natura, tecnologicamente arretrato e vittima immolata sull'altare del progresso. Le cose sono più complicate di così, e abbiamo cercato di non semplificarle.
Comunque, è pienamente nella tradizione italiana ed europea occuparsi dell'America, forzando la gabbia di archetipi e stereotipi che l'America ha montato intorno al proprio cuore. E non è certo “poco italiano” l'azzardo di lavorare su un immaginario trans-atlantico. Sergio Leone e compagnia trovarono la pietra filosofale dentro il genere western: intervennero sui clichés più logori e li trasformarono in oro. Un film come C'era una volta il west - scritto, sceneggiato, diretto, fotografato, montato e musicato da italiani - è una potente narrazione e rappresentazione dell'America, della sua coscienza, della sua quintessenza. Oggi più che mai, con l'Atlantico fattosi più largo per via delle scelte dell'amministrazione Bush, è vitale interrogarsi sul complesso rapporto tra noi e l'America.

In Manituana i personaggi storici si trasformano in eroi letterari con una grande carica emotiva: come li avete costruiti?

Nella fase iniziale della documentazione ci siamo trovati di fronte a personaggi con biografie complesse, romanzesche, romantiche nell'accezione settecentesca del termine. Vite di frontiera, personaggi a cavallo tra mondi e culture: non era difficile trasformare quelle figure in eroi letterari. Cosi le biografie hanno funzionato come humus e come seme per far crescere i personaggi non-storici, quelli di fantasia. Abbiamo cercato di rendere sulla pagina il senso di legami complessi, su più livelli; abbiamo cercato il senso comune in traiettorie esistenziali apparentemente divergenti e i motivi di stacco e differenza in destini apparentemente simili.

Soprattutto le donne svolgono un ruolo determinante, anche dal punto di vista politico. A cosa si deve l’omaggio?

Sappiamo bene di essere un collettivo tutto maschile, siamo coscienti della difficoltà di dare il giusto spessore ai personaggi femminili e sappiamo che non è facile. In questo caso ci è venuta in soccorso la realtà storica. La società irochese aveva componenti di matriarcato molto forti e radicate. L'appartenenza ai Clan - pilastro dell'organizzazione sociale irochese perchè trasversale alle tribù e alle nazioni, - era determinata per discendenza matrilineare.Inoltre le donne irochesi gestivano un potere prezioso e strategico: l'adozione. La sorte dei prigionieri di guerra dipendeva da loro: potevano deciderne la morte, come risarcimento per i figli e i mariti caduti in battaglia, o chiederne l'assimilazione alla tribù, per lo stesso motivo. Molto più spesso avveniva così. Non erano popolazioni numerose, avevano bisogno di braccia che lavorassero la terra, oppure andassero a caccia o a pesca. Ma l'adozione rendeva il prigioniero a tutti gli effetti figlio della nazione e del Clan, con ogni diritto o dovere che ne conseguiva. Molti importanti capi erano stati prigionieri adottati.

Cosa racconta del nostro presente una storia ambientata nel Settecento?

E' difficile ridurre un romanzo a una chiave di lettura univoca. In un certo senso raccontare la nascita degli Stati Uniti significa già occuparsi del presente e dell'America come problema mondiale. Si può dire che Manituana racconta la storia della scomparsa di una realtà meticcia, schiacciata dalla logica dello scontro di civiltà e dalla nascita di una nuova nazione. La fondazione degli Stati Uniti non avvenne a scapito dei "buoni selvaggi", come vorrebbe una certa olografia, ma di una cultura ibrida, interetnica, politicamente complessa e piena di contraddizioni. Se poi consideriamo che gli americani dell'ultimo quarto del XVIII secolo non erano altro che europei emigrati oltre Atlantico, si fa presto a sbattere contro i pilastri della nostra stessa civiltà, quindi del nostro presente globalizzato. L'America di allora, come quella di oggi, rappresenta l'estremo Occidente non soltanto in senso geografico, ma anche politico e culturale. Rappresenta, cioè, le estreme conseguenze dell'impatto "bianco" sul mondo.

“Biffa”, “locchiare”, “soma”: nel libro ci si imbatte in un omaggio al Burgess di Arancia meccanica. Che è anche una delle spie di un lavoro linguistico molto approfondito: quale?

Citiamo spesso un'immagine di Paco Ignacio Taibo II°, secondo cui la sperimentazione deve essere la “cucitura invisibile” che tiene insieme la storia. Non c'è niente di inconsapevole nel nostro modo di disporre parole e frasi, ma il nostro obiettivo non è la “bella pagina”. Se si guarda con attenzione ai nostri periodi, si vedrà che cerchiamo di ottenere una sottile alterazione della sintassi, e spostare il significato delle parole, anche di pochissimo. Spesso basta togliere un “mi” o un “ti” per ottenere una frase che “vibri” e rimanga sospesa come un hovercraft, un millimetro sopra la pagina. Questo non deve mai essere fine a se stesso, ma funzionale a quello che vogliamo raccontare, e il più possibile discreto. Meno il lettore si accorge della stranezza di certe scelte, meglio è. Spesso, poi, sono i traduttori a segnalarci la difficoltà di alcuni passaggi, che in Italia erano sembrati semplici.

Manituana non finisce con il libro: lo accompagnano racconti “paralleli” sul web, e altri ne verranno, anche dai lettori. Non solo: il sito integra la scrittura con suoni, immagini, mappe. Qual è l’obiettivo?

Raccontare una storia è scoprire un mondo. Le pagine di un libro sono uno degli ingressi magici che lo dischiudono. Si può scegliere di tenere chiuse le altre porte o si può cercare di spalancarle tutte, in segno di ospitalità. Ancora una volta si tratta di scegliere se offrire un universo da contemplare, intoccabile nella sua pretesa bellezza e perfezione, o se invitare a trasformarlo, a svilupparne le potenzialità. Non si tratta solo di estetica: se crediamo che uomini e donne assieme possano migliorare il mondo, faremo di tutto perché lettori e lettrici possano migliorare le nostre storie, con ogni mezzo necessario.

Loredana Lipperini


N.B.1 La versione integrale di questa intervista è disponibile sul blog di Loredana Lipperini.

N.B.2 Sulla rivista, il ritratto di Joseph Brant è accompagnato da una didascalia (non scritta dall'intervistatrice) in cui lo si definisce "capo moicano che aveva studiato in Inghilterra" e si aggiunge che "i moicani erano una delle sei tribù che formavano la nazione irochese".
Per amor di precisione: Joseph Brant era un Mohawk, non un Moicano. I Moicani non sono una tribù irochese e non fanno parte delle Sei Nazioni. Joseph Brant non aveva studiato in Inghilterra, ma in una scuola inglese del Connecticut.

23.03.07 · in interviste

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